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Italian to German: Rivista Geopolitic EASTWEST General field: Other Detailed field: Printing & Publishing
Source text - Italian Il 2016 è stato l’anno in cui il Mercosul ha celebrato il venticinquesimo anniversario. Ma è stato anche l’anno in cui l’organizzazione è entrata formalmente in crisi. Una situazione complicata, causata da convulsioni politiche interne e spinte centrifughe dei suoi membri, che sta mettendo a dura prova la tenuta del mercato comune dell’America meridionale. E che se non risolta potrebbe portare addirittura al suo dissolvimento.
Il primo fronte di crisi riguarda il Venezuela. “Il Mercosul starebbe molto meglio senza il Venezuela”, ha dichiarato lo scorso anno il presidente argentino Mauricio Macri durante una conferenza stampa, lapidario nei confronti del più recente partner del blocco economico. Una presa di posizione che esplicitava la crisi interna al Mercosul. Pochi giorni prima, i Paesi fondatori avevano votato la cancellazione della presidenza venezuelana. Caracas non si era adeguata all’acquis del Mercosul, in particolare a una serie di regole comuni fondamentali come quella sulla libera circolazione dei cittadini o il Protocollo sui Diritti Umani. Di conseguenza, non poteva presiedere l’organizzazione.
La querelle con Caracas ha radici antiche. Il Venezuela è stato ammesso nel Mercosul nel 2012 grazie a un colpo di mano dei governi di Brasile e Argentina, all’epoca guidati da Dilma Rousseff e Cristina Kirchner. Hugo Chávez aveva firmato il trattato di adesione su invito di questi esecutivi ideologicamente hermanos, ma l’ammissione del Venezuela era stata bloccata per oltre sei anni dal veto del Parlamento del Paraguay, controllato da conservatori. Ostacolo bypassato nel luglio 2012 con la sospensione di Asunción. L’accusa era aver violato la “clausola democratica” del Mercosul con l’impeachment dell’allora presidente Fernando Lugo. Una procedura peraltro prevista dalla Costituzione locale, autorizzata dalla Corte Suprema e che nulla aveva di anti-democratico. Tant’è che il Paraguay venne riammesso già nel 2013. Ma a quel punto Caracas era già dentro. E le veementi proteste di Asunción risultarono vane.
L’ingresso del Venezuela è quindi partito già conturbato, ha dato al Mercosul un carattere più politico che commerciale, e non è proseguito con tranquillità. In poco tempo è emerso non solo il diniego di Caracas di comportarsi come membro responsabile dell’organizzazione, ma anche la volontà di forzare un cambiamento delle regole interne. Ad esempio, con il rifiuto di rispettare gli impegni presi al momento dell’adesione, ostacolando la creazione del mercato comune. L’ostilità ideologica venezuelana al libero scambio collideva con lo scopo stesso del Mercosul. Senza contare poi le costanti e sfrontate violazioni dei diritti umani.
Le intemperanze di Chávez e Maduro sono state tollerate finché i governi degli altri Paesi erano ideologicamente affini, benché ciò danneggiasse gli scambi commerciali intra-blocco. Ora però il vento politico in Sud America è cambiato, e la situazione per il Venezuela è molto più complicata. Macri e Michel Temer non hanno la minima intenzione di piegarsi al bolivarianismo venezuelano. E infatti subito dopo il loro arrivo al potere sono partite le scintille con Caracas. Con tanto di richiamo di ambasciatori.
Tuttavia, anche i rapporti tra Brasilia e Buenos Aires non sono affatto idilliaci. Ed eccoci al secondo fronte di crisi, che riguarda le dispute commerciali tra Brasile e Argentina. Una serie incredibile di barriere che rendono di fatto il Mercosul una “zona di non libero scambio”. L’opposto di quello che sarebbe dovuto essere nell’intenzione dei fondatori. Tra i due principali partner il principio di libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali viene applicato solo parzialmente o addirittura per nulla. Una guerra doganale silenziosa ma costante.
L’affinità politica e l’intesa personale tra Temer e Macri sembrerebbe aver attenuato in parte questa problematica. Tuttavia, scadenze precise per un cambio di rotta non sono state fissate, e la pressione esercitata da settori economici, principalmente dagli industriali argentini preoccupati del forte differenziale di produttività con i concorrenti brasiliani, rende impressionante la quantità d’intralci ai flussi commerciali. Per gli imprenditori locali vale sempre il vecchio adagio “appoggiamo la riduzione dei dazi, sempre che siano i dazi degli altri”.
Il terzo e più serio punto di crisi è quello legato alla volontà di flessibilizzare il Mercosul, attraverso regole meno stringenti e dando la possibilità ai Paesi membri di stipulare liberalmente accordi commerciali.
Effettivamente, il Mercosul non ha mai brillato per attivismo diplomatico-commerciale, a causa dei trattati istitutivi che impongono l’unanimità dei membri per negoziare con altri Paesi. Non a caso, gli unici accordi di libero scambio firmati sono stati con Israele, Egitto e Palestina. Non esattamente potenze economiche.
Il nuovo governo brasiliano batte insistentemente su questo tasto fin dal suo insediamento. L’obiettivo è stipulare prima possibile il maggior numero di accordi di libero scambio, strizzando l’occhio neanche tanto velatamente all’Unione Europea, tentando di dare uno shock positivo all’agonizzante economia brasiliana.
Uruguay e Paraguay appoggiano l’iniziativa, rivendicando storicamente il diritto di stipulare indipendentemente accordi bilaterali. L’Uruguay, per esempio, si è sempre lamentato di non poter stringere legami commerciali con la Cina perché bloccato dagli altri Paesi del Mercosul, principalmente dal Paraguay, che riconosce Taiwan ed é quindi boicottato da Pechino.
Gli argentini, invece, esprimono riserve. Per la ministra degli Esteri di Buenos Aires, Susana Malcorra, cambiamenti di questa portata vanno fatti con “prudenza” e “senza urgenza”, dato che “potrebbero essere mal percepiti”. Traduzione: se ognuno va da sé è la fine del Mercosul. E ci saranno conseguenze anche in altri ambiti.
Non si tratta di un’affermazione di circostanza: è un chiaro allerta. Il Mercosul, infatti, non è un semplice accordo economico, ma ha radici politiche profonde e delicate, legate a questioni di sicurezza regionale. La corsa nucleare in Sud America degli anni ’70 e ’80 è stata bloccata sul nascere grazie alla firma del Trattato di Asunción. Il Mercosul ha permesso una distensione tra i Paesi membri, principalmente nei rapporti tra Brasile e Argentina, che sono anche aumentati. Mentre la storica rivalità tra vicini è stata relegata ai campi di calcio e spedita nel dimenticatoio politico.
Per questo motivo flessibilizzare il Mercosul sarebbe, di fatto, un ‘rompete le righe’. Se ognuno tratta da solo la propria politica commerciale il mercato comune muore all’istante. E le ripercussioni potrebbero andare ben oltre gli aspetti economici. D’altronde, Brasile e Argentina hanno centrali nucleari in funzione, e pur essendo firmatari del Trattato di Non Proliferazione mantengono la capacità di costruire testate atomiche.
In conclusione, il Mercosul si trova probabilmente nel momento più delicato della sua storia. Le contingenze politiche interne dei Paesi membri, le difficoltà economiche e la congiuntura esterna stanno generando effetti che potrebbero portare alla fine del blocco economico sudamericano. Il che non sarebbe una notizia positiva per la regione e per il mondo.
Translation - German 2016 feierte der Mercado Común del Sur (Mercosur) sein 25-jähriges Bestehen. Im selben Jahr begann aber auch eine formelle Krise der Organisation und es kam zu politischen Spannungen und zentrifugalen Bestrebungen der Mitgliedstaaten, die die südamerikanischen Freihandelszone auf eine harte Probe stellen. Wenn die Krise nicht gelöst wird, droht dem Mercosur das Ende.
Die erste Krisenfront ist Venezuela. „Dem Mercosur würde es ohne Venezuela weit besser gehen“, erklärte der argentinische Präsident Mauricio Macri letztes Jahr mit aller Härte gegenüber dem jüngsten Partner des Handelsabkommens. Diese Stellungnahme bringt die innere Krise des Mercosur gut zum Ausdruck. Wenige Tage zuvor hatten die Gründerländer die Streichung der venezolanischen Präsidentschaft beschlossen. Caracas entsprach nicht den Anforderungen des Mercosur, besonders hinsichtlich einiger Grundregeln, wie dem freien Personenverkehr oder dem Protokoll zum Schutz der Menschenrechte. Deshalb konnte es nicht Vorsitz führen.
Die Querelen mit Caracas reichen weit zurück. Venezuela wurde 2012 nur dank eines Handstreichs der Regierungen Brasiliens und Argentiniens in den Mercosur aufgenommen, die damals von Dilma Rousseff bzw. Cristina Kirchner regiert wurden. Hugo Chávez hatte das Beitrittsabkommen auf Einladung der ihm ideologisch nahestehenden Regierungen unterzeichnet, aber die Aufnahme Venezuelas war durch das Veto des konservativen Parlaments Paraguays sechs Jahre lang blockiert worden. Im Juli 2012 wurde dieses Hindernis durch den temporären Ausschluss Asuncións erfolgreich umschifft. Vorwand war die angebliche Verletzung der Demokratieklausel des Mercosur durch das Amtsenthebungsverfahren gegen Präsident Fernando Lugo. Der Vorgang war verfassungsgemäß und vom Obersten Gericht genehmigt und hatte beileibe nichts Antidemokratisches. Paraguay wurde 2013 auch umgehend wieder zugelassen. Aber da war Venezuela bereits aufgenommen und die Proteste aus Asunción blieben erfolglos.
Die Mitgliedschaft Venezuelas im Mercosur begann also turbulent und zeigte den deutlich politischen Charakter der Handelsorganisation. Es ging auch unruhig weiter: Schnell wurde klar, dass Venezuela keineswegs die Absicht hatte, ein verantwortungsvolles Mitglied zu sein, sondern Änderungen der internen Regeln erzwingen wollte. Chávez hielt sich nicht an eingegangene Verpflichtungen und behinderte die Schaffung eines gemeinsamen Marktes. Venezuelas Abneigung gegenüber dem Freihandel wiedersprach den Zielen des Mercosur, ganz abgesehen von den unverhohlenen Menschenrechtsverletzungen im Lande.
Die Haltlosigkeit Chávez’ und seines Nachfolgers Maduro wurde solange geduldet, wie die Regierungen der anderen Länder ihnen politisch nahestanden, obwohl das dem Handel schadete. Nun hat sich aber der politische Wind in Südamerika gewendet, und Venezuelas Lage ist schwieriger geworden. Macri und Michel Temer wollen sich dem venezolanischen Bolivarismus nicht beugen, und kaum waren sie an der Macht, begannen zwischen ihnen und Caracas die Funken zu fliegen, und es wurden sogar die Botschafter zurückgezogen.
Auch die Beziehungen zwischen Brasilia und Buenos Aires sind nicht gerade idyllisch. Damit sind wir bei der zweiten Krisenfront, den Handelsstreitigkeiten zwischen Brasilien und Argentinien. Eine schier unglaubliche Reihe von Handelsbarrieren machen den Mercosur paradoxerweise zu einer Nicht-Freihandelszone. Zwischen den beiden größten Mitgliedsstaaten kommen die Prinzipien des freien Verkehrs von Personen, Waren, Dienstleistungen und Kapital nur teilweise, oder gar nicht zur Anwendung. In Wirklichkeit schwelt vielmehr ein stiller aber hartnäckiger Zollkrieg zwischen ihnen.
Das Problem wird zwar gemildert durch die politische Affinität und das gute persönliche Verhältnis zwischen Temer und Macri, aber eine Agenda für einen Kurswechsel gibt es nicht, und der Druck bestimmter Wirtschaftssektoren – vornehmlich der argentinischen Industrie, die über die beachtlichen Produktivitätsunterschiede zu ihren brasilianischen Wettbewerbern besorgt ist – führt zu einer beeindruckend vielfältigen Behinderung des Handels. Für die lokalen Unternehmer gilt das alte Motto: Wir unterstützen eine Reduzierung der Zölle, solange es die Einfuhrzölle der Anderen sind.
Der dritte und vielleicht schwerwiegendste Punkt ist der Wunsch nach mehr Flexibilität, um den Mitgliedsstaaten den freien Abschluss von bilateralen Handelsabkommen zu ermöglichen. Der Mercosur hat sich noch nie durch seine Entscheidungsfreude hervorgetan. Dazu trägt wesentlich die Tatsache bei, dass die Gründungstraktate bei der Verhandlung mit Drittländern einstimmige Entscheidungen vorschreiben. Auf diese Weise kamen bisher lediglich Abkommen mit Israel, Palästina und Ägypten zustande – nicht gerade die größten Handelsmächte.
Die neue brasilianische Regierung wünscht die schnellstmögliche Unterzeichnung der größtmöglichen Zahl von Freihandelsabkommen. Dabei schielt sie unverhohlen auf die EU und versucht so, der darbenden brasilianischen Wirtschaft eine heilsame Schocktherapie angedeihen zu lassen.
Uruguay und Paraguay unterstützen diese Initiative und verlangen seit Jahren, bilaterale Handelsverträge abschließen zu dürfen. Uruguay hat immer beklagt, dass es keine Handelsabkommen mit China eingehen kann, weil es von den anderen Mercosur-Staaten blockiert wird, besonders von Paraguay, das Taiwan anerkennt und deshalb von Peking boykottiert wird. Die Argentinier zeigen sich zurückhaltend. Für Außenministerin Susana Malcorra müssen Veränderungen dieser Tragweite vorsichtig und ohne Eile angegangen werden, da sie „schlecht aufgenommen werden könnten“. Im Klartext: Wenn jeder seinen eigenen Weg geht, ist der Mercosur am Ende, und das würde auch auf anderen Gebieten Folgen haben. Das sind keine Floskeln, es ist eine klare Ansage. Der Mercosur ist nämlich kein einfaches Handelsabkommen, sondern hat tiefe und empfindliche Wurzeln, die auch mit der regionalen Sicherheit zu tun haben. Der Atomwettlauf der 1970er und -80er-Jahre in Südamerika wurde dank der Unterzeichnung der Verträge von Asunción beendet, bevor er richtig begonnen hatte. Der Mercosur hat zur Entspannung zwischen den Mitgliedstaaten beigetragen, besonders zwischen Argentinien und Brasilien. Ihre historischen Rivalitäten tragen die beiden jetzt im Fußballstadion aus statt in der Politik.
Durch eine Lockerung seiner Regeln könnte der Mercosur aus den Fugen geraten. Wenn jeder seine eigene Handelspolitik betreibt, ist das der Tod des gemeinsamen Marktes. Die Auswirkungen könnten die wirtschaftlichen Aspekte weit übersteigen. Brasilien und Argentinien betreiben Atomkraftwerke und wären trotz der Unterzeichnung des Atomwaffensperrvertrags in der Lage atomare Sprengköpfe zu bauen.
Der Mercosur befindet sich einer der kritischsten Phasen seiner Geschichte. Die innenpolitischen und wirtschaftlichen Schwierigkeiten seiner Mitgliedsländer und die internationale Konjunktur haben Auswirkungen, die zum Auseinanderbrechen des südamerikanischen Wirtschaftsblocks führen könnten. Das wäre keine gute Nachricht für die Region und die Welt.
English to German: Press release UN General field: Social Sciences Detailed field: Social Science, Sociology, Ethics, etc.
Source text - English
Migrants send home 51 per cent more money than a decade ago lifting millions out of poverty, says new report
New York, 14 June 2017 – The amount of money migrants send to their families in developing countries has risen by 51 per cent over the past decade - far greater than the 28 per cent increase in migration from these countries, according to a new report released by the International Fund for Agricultural Development (IFAD) today.
Sending Money Home: Contributing to the SDGs, One Family at a Time is the first-ever study of a 10-year trend in migration and remittance flows over the period 2007-2016. While the report shows that there have been increases in sending patterns to almost all regions of the world, the sharp rise over the past decade is in large part due to Asia which has witnessed an 87 per cent increase in remittances.
Despite the decade-long trend, Gilbert F. Houngbo, President of IFAD, said the impact of remittances must first be viewed one family at a time. “It is not about the money being sent home, it is about the impact on people’s lives. The small amounts of $200 or $300 that each migrant sends home make up about 60 per cent of the family’s household income, and this makes an enormous difference in their lives and the communities in which they live.”
More than 200 million migrant workers are now supporting an estimated 800 million family members globally. It is projected that in 2017, one-in-seven people in the world will be involved in either sending or receiving more than US$450 billion in remittances. Migration flows and the remittances that migrants send home are having large-scale impacts on the global economy and political landscape.
Total migrant worker earnings are estimated to be $3 trillion annually, of which approximately 85 per cent remains in the host countries. The money migrants send home averages less than one per cent of their host country’s GDP.
Taken together, these individual remittances account for more than three times the combined Official Development Assistance (ODA) from all sources, and more than the total foreign direct investment to almost every low- and middle-income country.
“About 40 per cent of remittances - $200 billion – are sent to rural areas where the majority of poor people live,” said Pedro de Vasconcelos, the manager of IFAD’s Financing Facility for Remittances and lead author of the report. “This money is spent on food, health care, better educational opportunities and improved housing and sanitation. Remittances are therefore critical to help developing countries achieve the Sustainable Development Goals.”
Transaction costs to send remittances currently exceed $30 billion annually, with fees particularly high to the poorest countries and remote rural areas. The report makes several recommendations for improving public policies and outlines proposals for partnerships with the private sector to reduce costs and create opportunities for migrants and their families to use their money more productively.
“As populations in developed countries continue to age, the demand for migrant labour is expected to keep growing in the coming years,” said de Vasconcelos. “However, remittances can help the families of migrants build a more secure future, making migration for young people more of a choice than a necessity.”
Other key findings from the Report:
• Remittance flows have grown over the last decade at a rate averaging 4.2 per cent annually, from $296 billion in 2007 to $445 billion in 2016.
• One hundred countries receive more than $100 million in remittances each year.
• It is projected that an estimated $6.5 trillion (at no growth) in remittances will be sent to low- and middle-income countries between 2015 and 2030.
• The top ten sending countries account for almost half of annual flows, led by the United States, Saudi Arabia and the Russian Federation.
• Eighty per cent of remittances are received by 23 countries, led by China, India and the Philippines.
• Asia receives 55 per cent of all remittance flows.
The report is released ahead of the International Day of Family Remittances commemorated annually on 16 June. Its analysis and recommendations set the stage for discussions at the Global Forum on Remittances, Investment and Development 2017 on 15-16 June at UN Headquarters in New York.
Notes to Editor
The Report can be downloaded here:
The Global Forum on Remittances, Investment and Development 2017 will be webcast: www.ifad.org/web/events/gfrid2017
Contact:
Joanne Levitan
Communications Division
Tel: +39 06 54592509
Mobile : +39 3665620977
Email: [email protected]
IFAD invests in rural people, empowering them to reduce poverty, increase food security, improve nutrition and strengthen resilience. Since 1978, we have provided US$18.5 billion in grants and low-interest loans to projects that have reached about 464 million people. IFAD is an international financial institution and a specialized United Nations agency based in Rome – the UN’s food and agriculture hub.
Press release No.: IFAD/
Translation - German
Nach einem neuen Bericht schicken Migranten 51% mehr Geld nachhause als vor zehn Jahren und helfen Millionen Menschen aus der Armut
New York, 14. Juni 2017 – Die Menge des Geldes, das Migranten ihren Verwandten in Entwicklungsländern schicken, ist im letzten Jahrzehnt um 51% gewachsen – und damit weit mehr als die Migration aus diesen Ländern, die im selben Zeitraum um 28% stieg. Das geht aus einem heute veröffentlichten Bericht des International Fund for Agricultural Development (IFAD) hervor.
Sending Money Home: Contributing to the SDGs, One Family at a Time (Geld nachhause schicken: Ein Beitrag zur Erreichung von Zielen für nachhaltige Entwicklung, Familie für Familie) ist die erste Untersuchung zu einem Zehnjahrestrend bei Migration und Heimatüberweisung in der Zeit zwischen 2007 und 2016. Der Bericht zeigt, dass die Geldsendungen in fast alle Weltregionen zugenommen haben, der starke Anstieg der letzten 10 Jahre jedoch hauptsächlich Asien geschuldet ist, wohin 87% mehr Geld überwiesen wird.
Bei dem in dem Jahrzehnt festgestellten Trend müssen nach dem IFAD-Vorsitzenden Gilbert F. Houngbo zunächst die Auswirkungen der Überweisungen Familie für Familie betrachtet werden: „Es geht nicht um das nachhause überwiesene Geld, sondern um die Auswirkungen auf das Leben der Menschen. Die kleinen Beträge von 200 oder 300 Dollar, die jeder Migrant nachhause schickt, stellen dort etwa 60 % des Familieneinkommens dar; das macht für das Leben der Menschen und der Gemeinschaften, in denen sie leben, einen enormen Unterschied.”
Über 200 Millionen Migranten unterstützen weltweit schätzungsweise 800 Millionen Angehörige. Für 2017 wird prognostiziert, dass einer von sieben Menschen weltweit Sender oder Empfänger von Heimatüberweisungen in einer Gesamthöhe von über 450 Milliarden US-Dollar sein wird. Migration und Heimatüberweisungen von Migranten haben weitgreifende Auswirkungen auf die globale Wirtschaft und Politik.
Der Gesamtverdienst von arbeitenden Migranten wird auf 3 Billionen Dollar pro Jahr geschätzt, von denen etwa 85% in den Gastländern bleiben. Das Geld, das Migranten nachhause schicken, stellt durchschnittlich weniger als 1% des BIP des jeweiligen Gastlandes dar.
Zusammengerechnet ergeben diese privaten Überweisungen einen Betrag, der über drei Mal so hoch ist wie die Öffentliche Entwicklungshilfe – Official Development Assistance (ODA) – aus allen Quellen, und mehr als die gesamten Direktinvestitionen in fast jedes Niedrig- oder Mittellohnland.
„Etwa 40% der Heimatüberweisungen – und damit 200 Milliarden Dollar – gehen in ländliche Gebiete, wo die meisten Leute leben“, sagt Pedro de Vasconcelos, der Manager von IFAD und Hauptautor des Berichts. „Dieses Geld wird für Nahrung, Gesundheit, bessere Ausbildungsmöglichkeiten, besseres Wohnen und bessere Sanitäreinrichtungen ausgegeben. Die Gelder sind damit wesentlich für das Erreichen der Ziele für nachhaltige Entwicklung in den Entwicklungsländern.”
Die Transaktionskosten für diese Heimatüberweisungen überschreiten gegenwärtig 30 Milliarden Dollar pro Jahr, wobei die Gebühren für den Transfer in die ärmsten Länder und abgelegene ländliche Gebiete besonders hoch sind. Der Bericht bringt verschiedene Vorschläge zur Verbesserung der öffentlichen Strategien und Partnerschaften mit dem privaten Sektor, die die Kosten senken und Gelegenheiten für die Migranten und ihre Familien schaffen sollen, ihr Geld produktiver einzusetzen.
„Bei der zunehmenden Alterung der Bevölkerung in den hoch entwickelten Ländern wird der Bedarf an Migrantenarbeit voraussichtlich in den nächsten Jahren weiter wachsen“, erläutert de Vasconcelos. „In jedem Fall können die Geldsendungen helfen, eine sicherere Zukunft aufzubauen und für junge Menschen die Migration von einer Notwendigkeit zu einer freien Entscheidung zu machen“.
Weitere Schlüsseldaten aus dem Bericht:
• Heimatüberweisungen haben im letzten Jahrzehnt um durchschnittlich 4,2% pro Jahr von 296 Milliarden 2007 auf 445 Milliarden Dollar 2016 zugenommen.
• In einhundert Länder werden pro Jahr jeweils über 100 Millionen Dollar überwiesen.
• Voraussichtlich werden (nach derzeitigem Stand) zwischen 2015 und 2030 etwa 6,5 Billionen Dollar in Niedrig- und Mittellohnländer überwiesen.
• An der Spitze der 10 größten Senderländer, aus denen fast die Hälfte der Überweisungen stammt, stehen die USA, Saudi-Arabien und die Russische Föderation.
• 80 % der Überweisungen fliesen in 23 Länder, angeführt von China, Indien und den Philippinen.
• 55 % des Geldflusses gehen nach Asien.
Dieser Bericht erscheint zum jährlichen Internationalen Tag der Heimatüberweisungen am 16. Juni. Die im Bericht enthaltenen Erkenntnisse und Empfehlungen bilden die Grundlage der Diskussionen des Global Forum on Remittances, Investment and Development 2017 am 15. und 16. Juni im UN-Hauptquartier in New York.
Anmerkungen für den Redakteur:
Der Bericht kann über den folgenden Link heruntergeladen werden :
Das Global Forum on Remittances, Investment and Development 2017 wird als Webcast übertragen: www.ifad.org/web/events/gfrid2017
Kontakt:
Joanne Levitan
Communications Division
Tel: +39 06 54592509
Mobil : +39 3665620977
E-Mail: [email protected]
IFAD investiert in ländliche Gebiete, um die Armut der Bevölkerung zu verringern und die Nahrungsmittelsicherheit, Ernährungslage und Resilienz der Bevölkerung zu verbessern. Seit 1978 hat IFAD 18.5 Milliarden US_Dollar für Garantien und Niedrigzinskredite für Projekte bereitgestellt, die etwa 464 Millionen Menschen erreicht haben. IFAD ist eine internationale Finanzeinrichtung und eine Sonderagentur der Vereinten Nationen mit Sitz in Rom – dem Ernährungs- und Landwirtschafts-Hub der Vereinen Nationen.
Presseerklärung Nr.: IFAD/
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Years of experience: 37. Registered at ProZ.com: Sep 2011.
I am native german speaker an have been living in Italy for over 35 Years.
I made my universitydegree (laurea) in Medicine in Rome.
I have been working as translator, speaker for 30 years by now.